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Sana’a : Appunti dallo Yemen di Silvana Panam

Di Silvana Panam



La prima cosa che mi ha colpito al mio arrivo a Sana’a è stato il portamento della gente che vedevo camminare per strada, e che mi ha dato l’idea di orgoglio e fierezza. Immediatamente dopo è venuta la naturale curiosità nei confronti dell’abbigliamento: gli uomini indossano una tunica bianca o azzurra, una specie di turbante ed un pugnale piuttosto inquietante, la jambiya, appesa ad una sfarzosa cintura ricamata. Per inciso mi dicono che nello Yemen del nord esibire un arma è, da parte di un uomo, l’affermazione della propria virilità: coloro che non indossano il costume tradizionale portano il kalashnikov, evidentemente si tratta di un’arma della giusta dimensione per essere, appunto, esibita.
Le donne mi hanno colpito ancora di più: sono delle nere presenze di cui si nota per prima cosa il portamento eretto, ed immediatamente dopo lo sguardo, se possibile; gli occhi sono l’unica parte del corpo scoperta, e neppure sempre.
La parte vecchia di Sana’a è effettivamente molto bella, con le sue alte case color argilla e i decori bianchi, in particolare nel pomeriggio, quando la luce calante fa assumere agli edifici un caldo colore del bronzo, e fa brillare il bianco dei decori.
Il viaggio per arrivare ad Aden è stato molto interessante: si tratta di circa 500 km di strada che attraversa le Highlands centrali e scende da 2300 metri al mare. I paesaggi sono strabilianti: rocce, dirupi, piccole valli verdi e coltivatissime, zone aride, perfino una fetta di deserto con dune e cammelli.
Appena fuori Sana’a incontriamo un primo check point (mi dicono che ne incontreremo più di uno lungo la strada, infatti saranno 5) in cui dobbiamo caricare in auto un soldato armato di kalahsnikov che ci scorterà fino al secondo, 80 km. più avanti. Qui siamo nuovamente scortati da una prima auto della polizia per circa un’ora e poi da una seconda per un’altra ora. L’impressione non è rassicurante, anche se pare che queste siano misure per prevenire i rapimenti. I soldati vogliono sapere dove andiamo e perché: sono con la mia capo progetto e suo marito, che abitano nel paese dal 1986, e prima di partire abbiamo dovuto comunicare alla polizia turistica i nostri movimenti, ed ottenere una specie di permesso scritto. Mi fa riflettere sull’assoluta libertà di movimento di cui godiamo in Europa (per lo meno noi «nativi»), e che diamo per scontata, mentre è frutto di una lunga e certamente non conclusa esperienza nell’esercizio della democrazia.

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